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Walking on an awful day

Ho visto il video di Hollaback sulle molestie in strada e ho letto un sacco di commenti a riguardo ma più che dal video e dai commenti sono stata stupita dal mio non essere affatto stupita.

La prima volta che mi è successo avevo compiuto da poco dodici anni ed avevo avuto da poco il primo ciclo. Scrivevo lettere d’amore e bigliettini in stile “Vuoi metterti con me? Si/no/forse” da anni ma ancora non avevo idea di cosa fosse il sesso – articoli di Cioè a parte – e passavo i pomeriggi a giocare sulla piazza vicino casa. Ero l’unica femmina, sempre e comunque, e quando insistevo riuscivo a convincerli a farmi giocare a calcio, anche se alla fine mi piazzavano sempre in porta. L’alternativa era giocare a nascondino e quel giorno avevamo optato per il nascondino: ero corsa a nascondermi tra le auto parcheggiate nel garage pubblico accanto alla piazza e non mi ero resa conto che D. mi aveva seguita. Era più grande, non mi stava troppo simpatico, non stava troppo simpatico a nessuno, e non mi andava giù che mi avesse seguita, ma non dissi niente perchè temevo che parlare mi avrebbe fatto perdere. Non dissi niente nemmeno quando D. mi mise entrambe le mani sul seno e disse qualcosa di terribilmente imbarazzante, come «Ti stanno crescendo» ma in quel caso, più che per la partita a nascondino, non parlai perchè ero impietrita, perchè non sapevo che fare. Avevo dodici anni, non conoscevo ancora la parola “molestie”, a parte roba che non capivo sentita dagli adulti e nei telegiornali e avevo subito quella che oggi chiamerei molestia senza nemmeno rifletterci troppo. Non raccontai niente a nessuno perchè ero l’unica femmina e temevo di passare per piagnona o qualcosa del genere ed essere esclusa dal gruppo. Non raccontai niente anche perchè una parte di me, in fondo, era contenta. Autostima e disgusto mi crescevano dentro insieme, paradossalmente. Adesso ho saputo che D. è diventato un fascistello e l’idea che un fascistello in erba mi abbia toccato le tette mi provoca un’incazzatura retroattiva brutale. Vorrei avere il potere del tizio di Butterfly Effect solo per prenderlo a pugni nei denti.

La seconda volta avevo quindici anni, ero perdutamente innamorata di G. e della sua r francese, adoravo parlare con lui di dischi, libri, film, politica, scuole occupate e collettivi e adoravo passare il tempo con lui, a fumarci le canne nei giardinetti dell’oratorio parrocchiale. Di contro odiavo il fatto che G. fosse fidanzato con mia cugina e odiavo il mio essere grassoccia. Pensavo che se fossi stata più attraente forse avrebbe scelto me. Per questo, quando due ragazzi più grandi, A. e K., mi toccarono il culo mentre andavo a fumare con G. ai giardinetti dell’oratorio, una parte di me fu contenta: pensai qualcosa come «Ehi, forse il mio culo non fa così schifo se c’è qualcuno che lo tocca». Nonostante tutto, comunque, a differenza della prima volta, lo raccontai: è stato anche peggio. A. e K. erano marocchini ed erano arrivati da poco al paesello e le reazioni razziste delle persone a cui lo raccontai mi fecero pentire di averlo fatto.

La terza volta avevo diciassette anni ed ero a Roma, metro San Paolo, ero con mia cugina ed una sua amica. Iniziammo a camminare e un signore in macchina si mise a seguirci. Camminavamo sempre più veloce. Un gruppo di ragazzi se ne accorse, uno di loro ci urlò contro qualcosa come «Vi sta dando fastidio? Ci penso io», e tirò fuori un martello dalla tasca. Un martello. Dalla tasca. Il cavaliere senza macchia e senza paura ™ ci aveva salvate, che emozione.

La quarta volta è stata cinque anni fa. Avevo appena comprato le sigarette e aspettavo un’amica. Un signore di circa cinquant’anni mi si è avvicinato e ha iniziato a parlarmi, così, dal nulla. Mi raccontava del suo disagio psichico e del fatto che vivesse coi genitori in campagna e a me piaceva ascoltare le storie della gente incontrata per strada a caso, all’epoca amavo ancora l’umanità o giù di lì e poi allontanarsi dai pazzi è una cosa da signore borghesi, scherziamo? Era il doppio di me e dopo tutti i racconti mi chiese di accompagnarlo a masturbarsi e quando non risposi e tirai fuori dalla borsa il cellulare per chiamare la mia amica e chiederle di sbrigarsi, si spaventò e iniziò ad urlarmi contro, chiedendomi di non chiamare la polizia. Alla fine la mia amica è arrivata e non è successo niente, ma anche se poi ho raccontato la cosa ridendoci su e in modalità «Non potete capire che cosa assurda mi è successa l’altra sera», in quel momento ero spaventata.

Analizzando a freddo, a distanza di anni e alla luce del video di Hollaback (che tra l’altro è stato replicato anche in Italia) tutti questi episodi, quello che personalmente mi preme sottolineare è che quella delle molestie in strada è una questione scivolosa e controversa che sul piano individuale può dare adito a confusioni e difficoltà di focus e su quello sociopolitico può essere terreno fertile per strumentalizzazioni varie ed eventuali. Quello che ho definito “piano individuale” in realtà è strettamente individuale solo in una lettura superficiale.  Il problema di chi commenta il video con reazioni come «Magari lo dicessero a me» o «Roba del genere aumenta l’autostima» non è soltanto un problema della singola persona che lo dice, non è soltanto “idiozia: è un effetto subdolo dei processi di normalizzazione estetica dei corpi, una sorta di sindrome di Stoccolma in scala ridotta o qualcosa del genere. È, in ultima analisi, dunque, un problema politico.
In secondo luogo, il rischio che la lotta alle molestie in strada diventi un’arma mediatica nelle mani di chi preme per politiche ipersecuritarie, per città militarizzate e per campagne razziste e che sostanzialmente approfondiscono fenomeni di esclusione sociale già in atto, è altissimo e, chiaramente, non possiamo permettere che avvenga. Questo, però, di contro, non deve portare ad una minimizzazione della questione molestie anche perchè minimizzare una molestia quando il molestatore appartiene ad una categoria sociale marginalizzata non è una forma di lotta all’esclusione sociale, è semplicemente politically correct qualunquista.

Qual è, dunque, la via giusta per affrontare la questione in un’ottica di movimento? Deluderò quelli che si aspettano un elogio simil-pasoliniano ai ragazzini sottoproletari delle periferie che arrivano a difendere le povere fanciulle smarrite come cavalieri in splendente armatura: pur ringraziando – a distanza di anni – quelli che hanno difeso me nell’episodio citato sopra, trovo che uno scenario del genere offrirebbe una via d’uscita falsa, considerando che una lotta alle molestie in strada condotta in questi termini spianerebbe la via ad una legittimazione del patriarcato, e si passerebbe dalle molestie in strada alle molestie domestiche o quantomeno ad un rapporto di dipendenza tra la donna debole e molestata e il maschio difensore.

La realtà dei fatti è che allo stato attuale la via d’uscita non esiste: a mio avviso, però, quando, come militanti, parliamo di riappropriarci delle città dal basso o di spazi sociali che lavorano sui territori e nei quartieri, non possiamo e non dobbiamo tralasciare questo aspetto. Spesso, però, non solo questi temi vengono ignorati ma, in certi casi, le molestie paradossalmente avvengono addirittura negli spazi occupati e allora, ancora una volta, su questi temi c’è bisogno di fare una profonda autocritica.

(nota: il titolo del post è una semicitazione da Kurt Vile)