Month: agosto 2014

Due dita in gola #5 – Michela Marzano, Tara Lynn e la biopolitica

Qualcun* avrà pensato che avremmo apprezzato. Qualcun’altr* avrà addirittura apprezzato in prima persona.  Li sento senza averli mai sentiti.

«Non era quello che volevate? Capovolgere la società dell’immagine, creare nuovi canoni estetici. Non era quello che volevate, questa cosa delle modelle grasse?»

Questa cosa delle modelle grasse (per inciso, so che non si dice “grasse”, so che curvy sarebbe più politically correct, ma su questo blog dell’ipocrisia del politically correct se ne fa sempre a meno più che volentieri) è una notizia che spopolava un mese fa o giù di lì, quelle stronzate da colonna destra di Repubblica e affini. Tara Lynn è la più famosa, ma ce ne sono anche altre. Alcune sono finite addirittura sul calendario Pirelli e la notizia, nello specifico, era su quello. SDOGANATE LE DONNE CURVY! con tanto di foto di queste tizie e articoli lunghissimi su quanto tutto ciò avrebbe fatto bene alle ragazze con disturbi dell’alimentazione e alla loro autostima.

Non mi fa piacere. Non era quello che volevo. Quanto a fare bene alle ragazze con DCA e alla loro autostima, cazzate. Il punto è che Tara Lynn e le altre non sono meno irreali (e probabilmente anche non meno photoshoppate) del prototipo classico di modella da copertina di Vogue: nel mondo reale, una ragazza grassa che non abbia anche brufoli, cellulite e inestetismi vari, è un caso su mille, è molto fortunata. Tanto per chiarire, non sto dicendo che sono assolutamente contro le modelle grasse e che non dovrebbero esistere, sto dicendo che la narrazione mediatica “modella curvy = toccasana per le ragazze con DCA” è falsa e dannosa quanto il suo esatto opposto, se non di più (roba alla “Allora il mio problema non è essere grassa, sono proprio io ad essere sbagliata”, e risvolti potenziali addirittura peggiori, quanto a gravità, rispetto ai disturbi dell’alimentazione stessi).

Se da un lato c’è chi pensa, banalizzando, che basta la foto di una modella di novanta chili sul calendario Pirelli, comunque, dall’altro va anche peggio: ci sono Michela Marzano e socie che come unica soluzione propongono la criminalizzazione (si parla addirittura di carcere) delle blogger che parlano di anoressia e bulimia facendole passare per cose fighe o giù di lì (se la cosa dovesse passare e la signora Marzano + socie dovessero incappare in questo post, siccome sono sicura all’ottanta per cento che lo fraintenderanno, portatemi qualcosa da leggere in carcere, pls).

La signora Marzano è una docente di filosofia e dovrebbe conoscere Foucault e la biopolitica più di quanto non lo conosca io.  La signora Marzano, da quel che racconta, ha anche sofferto di disturbi del comportamento alimentare come la sottoscritta e come tante altre persone. Possibile che l’unica via d’uscita che riesca a concepire è quella di normare ulteriormente i corpi, di criminalizzare, di sorvegliare e punire – per restare su Foucault- quando invece, soprattutto quando si vivono percorsi del genere, diventa chiaro che l’unica via d’uscita collettiva possibile è liberare i corpi ed iniziare a viverli in maniera più consapevole? Io non ho iniziato a vomitare perchè ho letto blog di ragazze bulimiche o anoressiche che spiegavano quanto fossero fighe la bulimia o l’anoressia e soprattuto, se venissi a sapere che hanno arrestato (?) una blogger perchè ha scritto di sentirsi meglio dopo aver perso trenta chili mangiando e vomitando, non mi sentirei meglio. Mi sentirei peggio, mi sentirei addirittura spaventata, perchè in parte è quello che è successo anche a me, e raccontarlo, l’autonarrazione, è l’unica cosa che mi fa stare meglio. E l’autonarrazione DEVE essere necessariamente omnicomprensiva, non posso autocensurarmi e parlare solo di quanto faccia schifo la bulimia, devo necessariamente parlare anche della gente che mi diceva “Come stai bene, come sei dimagrita?” dopo i primi mesi passati a mangiare e vomitare sistematicamente. Non posso autocensurarmi, e non posso permettere che altri lo facciano.

Quanto alla signora Marzano & amiche, lo so che di questi tempi va di moda solo la criminalizzazione di tutto e tutti a cazzo di cane e che invece il welfare non lo caga più nessuno (o probabilmente non l’ha mai cagato nessuno), ma magari sarebbe stato più utile proporre finanziamenti ai CSM e ai consultori, campagne di supporto psicologico all’interno delle scuole superiori e roba del genere. E invece, come al solito, è tutta aria fritta.

Le vite degli altri

“Le vite degli altri” è un bel film del 2006 ambientato a metà degli anni ’80 a Berlino Est e parla di guerra fredda, Stasi e spionaggio, per farla molto molto breve.  Quando lo ho visto mi sono immaginata una versione 2010 del film un po’ più triste, squallida e noiosa ambientata su Facebook e mi sono ricordata di tutto ciò quando, circa un mese fa,  è venuta fuori la storia dello studio sull’umore di un campione di utenti pilotato in maniera scientifica. Fare da cavie inconsapevoli è indubbiamente una merda, tuttavia, chiarito ciò, credo vada fatta una riflessione sul ruolo reale dei social network sull’umore individuale e collettivo e sullo stato di alienazione sociale crescente. Sono davvero il diavolo, la fonte di ogni male, la morte dell’interazione reale e via discorrendo?

Vista la complessità dell’argomento, proverò a rendere più organica la riflessione in merito dividendola per punti.

1) L’identità virtuale

«Look, as sentient meat, however illusory our identities are, we craft those identities by making value judgments: everybody judges, all the time.»

(Rust Cohle, True Detective)

Il corpo costituisce uno dei più importanti elementi di divergenza tra quello che, semplificando e banalizzando, possiamo definire “il mondo reale” e la virtualità (e l’immagine fotografica, selfie o non selfie che sia, è sempre e comunque diversa dal corpo materiale, ne è solo una riproduzione, mai completamente fedele). Se da un lato – come vedremo di seguito – l’assenza del fattore “corpo” nel virtuale può avere risvolti positivi sull’umore, analizzando la questione da una prospettiva più o meno convergente con quella di Rust Cohle, otteniamo un risultato completamente opposto, che ci porterebbe a pensare la non-corporeità come un problema. Quando il concetto di identità diventa culturalmente labile ed incerto, come tendenzialmente è successo in questo ultimo secolo, il corpo, questo ammasso di carne senziente, resta l’ elemento più valido che la nostra coscienza ha per autoaffermarsi, l’unico elemento che separa in maniera chiara, netta, e più o meno inequivocabile l’Io dal Non-Io.

La non-corporeità del virtuale, la mancanza di limiti netti tra l’Io e il Non-Io, dunque, è disorientante e il più delle volte induce a cercare mezzi di autoaffermazione più o meno validi. La prima conseguenza naturale di ciò è che i value judgements di cui parla Rust Cohle (Pizzolatto, in realtà) nel virtuale diventano ancora più importanti di quanto non avvenga nel mondo materiale,  fino a configurarsi come una delle basi fondanti del concetto di social network (il Like di Facebook o il Preferito di Twitter, sostanzialmente, non sono altro che value judgments). Il primo aspetto problematico di questa centralità dei value judgments come mezzo di autoaffermazione nel web è la tendenza a sentire la necessità di esprimere la propria opinione anche su argomenti che normalmente non interesserebbero o di cui comunque non si sa molto. Il secondo punto critico insorge quando il giudizio sconfina nella prevaricazione, quando l’affermazione della propria identità virtuale prevede l’annientamento di quelle altrui, ed è una cosa che succede piuttosto spesso: si passa dal flame episodico al vero e proprio cyberbullismo conclamato.

2) Doppia identità

«People out here, it’s like they don’t even know the outside world exists»

(Rust Cohle, True Detective. again)

Bypassiamo la mia ormai evidente cotta virtuale per Rust Cohle e andiamo ad analizzare quello che, ad una prima analisi superficiale, sembrerebbe essere il grosso vantaggio garantito dalla suddetta non-corporeità del web: se si intende il corpo non come un’ancora tra identità e realtà ma, piuttosto, secondo una visione piuttosto diffusa, come una gabbia che limita le reali potenzialità dell’ego, si capisce piuttosto chiaramente quale sia il vantaggio in questione. La non-corporeità, quindi, ha l’effetto di cancellare le insicurezze relazionali legate alla percezione della propria immagine-corpo ma anche quello, meno immediato, di dilatare le percezioni spazio-temporali, impedendo o comunque rendendo più difficile avere una visione chiara del rapporto causa-effetto (v. ad esempio la differenza del rapporto in termini spazio-temporali e causali tra uno scontro verbale insulto/reazione/difesa reale e uno nel web).

Questo vantaggio, tuttavia, è solo apparente: soprattutto in casi in cui l’insicurezza legata alla percezione del corpo è molto marcata, sul lungo periodo il solco tra il modo di rapportarsi al prossimo e a sè stessi nel web e il modo materiale rischia di diventare molto profondo e quindi problematico e confusionario.

La vera personalità di un individuo è quella che dimostra di avere nel web o quella che dimostra di avere nel piano materiale? Considerando quanto sia sfaccetato e non riducibile ad una definizione univoca il concetto di personalità già di base, dare una risposta univoca a questa domanda è pressochè impossibile. Tuttavia il corpo, questo ammasso di carne senziente, esiste, e i tentativi di cancellarlo e non considerarlo sul lungo periodo diventano vana auto-illusione.

3) Effetto Her

«Is that weird? You think I’m weird?»
«Kind of.»
«Why?»
«Well, you seem like a person but you’re just a voice in a computer»

(Her, Spike Jonze)

Questo paragrafo è pressochè un corollario del precedente. Il titolo, invece, è una citazione-omaggio al film di Spike Jonze, Her (mi rifiuto di scrivere il titolo italiano, ndr) che – per chi non l’ha visto – parla di una strana storia d’amore tra uno scrittore di lettere su commissione e l’AI del sistema operativo di un computer. L’argomento è l’innamoramento via Facebook, o comunque l’innamoramento virtuale. Qualcuno, non troppo tempo fa, sosteneva che l’innamoramento virtuale fosse più “puro” e sincero rispetto a quelli reali, proprio perchè mancando il fattore corpo (si torna sempre, inevitabilmente, lì) viene a mancare il fattore attrazione fisica e ci si trova, quindi, di fronte ad un’attrazione totalmente mentale.

Non so quanto sia vero anche se tendenzialmente penso che l’innamoramento non possa prescindere dall’accettazione della dimensione-corpo dell’altro, tuttavia il problema è che nell’ottica del concetto di doppia identità esposto nel paragrafo precedente, l’innamoramento virtuale non solo non è puro, ma rischia di essere addirittura falso e problematico sia per chi viene idealizzato che per chi idealizza. Nello specifico, chi viene idealizzato, rischia di sentire ancora di più la discrepanza tra il proprio modo di porsi nel web e quello del mondo materiale mentre, di contro, chi idealizza, tende a perdere il contatto con la realtà relazionale da cui è circondat* o ad avere sempre meno interesse ad affrontarla (e tra l’altro questo punto, per chi ha avuto modo di vedere il film citato, risulterà lampante)

4) Conclusioni

«This place is like somebody’s memory of a town, and the memory is fading… it’s like there was never anything here but jungle.»

(Rust Cohle, True Detective…e 3)

Dopo l’intermezzo “Her” ritorno a “True Detective” per compensare un titolo del paragrafo abbastanza pessimo. Per il resto, credo che prima di provare a tirare le fila di tutte queste riflessioni sparse sia necessario chiarire la relazione intercorrente tra la realtà materiale e quella virtuale. Personalmente, i discorsi dai quali il web emerge come un universo a parte rispetto a quello materiale o – peggio – le locuzioni come il popolo del web mi hanno sempre lasciata piuttosto perplessa: il web è una porzione  sempre più consistente del mondo materiale, non un mondo a parte, e il popolo del web, a meno che qualcuno non abbia scoperto un popolo di omini alti tre centimetri che vive nei modem, non è altro rispetto al resto-del-mondo. La conseguenza di ciò è che qualsiasi discorso intorno alle problematiche del virtuale – dai social network a tutto il resto – non può prescindere da un’analisi sociale più ampia e generica. I fenomeni di web addiction, ad esempio,  andrebbero analizzati con gli stessi presupposti sociali che si usavano per le analisi sull’incremento del consumo di eroina e cocaina negli ultimi decenni del secolo scorso.

Il discorso, in ogni caso, è lungo e complesso e c’è ancora molto da discutere e scrivere a riguardo. Tuttavia, il punto, è che per iniziare a vivere le relazioni sociali nel virtuale in un modo più sano, dovremmo imparare a non sottovalutare, da un lato, l’esistenza della sentient meat, del corpo, che continua ad esserci anche se in quella dimensione e invisibile e dall’altro, dal punto di vista del reale, rendersi conto una volta per tutte che la componente della virtualità è un elemento sempre più forte della società contemporanea, e pensare luddisticamente di escluderla, dimenticarla o sottovalutarla – in qualunque campo si operi – è utopia pura.

 

 

 

 

NOTE / CREDITS

Le riflessioni contenute in questo post sono la rielaborazione
– fatta anche sulla base di esperienze e vicende personali
(che se non infilo sempre un po’ di cose egoriferite poi sembra brutto)
–  di una serie di conversazioni
e discussioni casuali intorno alle tematiche trattate
avute negli ultimi tre mesi con una decina di amici e conoscenti di età, provenienza geografica e collocazione sociale diversa.
Una specie di conricerca involontaria.
Grazie a tutti.

E grazie anche a Rust Cohle, per essere il personaggio più bello delle serie TV degli ultimi anni,
a Nickì Pizzolatto per averlo creato, a Spike Jonze per “Her” e a Florian Henckel per “Le vite degli altri“.